“Actio finium regundorum”: una visione liberale del rapporto tra pubblica amministrazione e mercato

di Angelo Maria Petroni - Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Se è vero, come sembra oramai condiviso, che le istituzioni liberaldemocratiche rappresentano non solo il presente ma anche ogni prevedibile futuro dei paesi più avanzati, è altrettanto vero che continua a non essere risolto il rapporto tra liberaldemocrazia e pubblica amministrazione. E continua a non essere risolto il rapporto tra pubblica amministrazione ed economia di mercato, intesa quest’ultima nel duplice senso di sistema generale e di regole e tecniche di gestione delle risorse scarse.

di  Angelo Maria Petroni – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

S e è vero, come sembra oramai condiviso, che le istituzioni liberaldemocratiche rappresentano non solo il presente ma anche ogni prevedibile futuro dei paesi più avanzati, è altrettanto vero che continua a non essere risolto il rapporto tra liberaldemocrazia e pubblica amministrazione. E continua a non essere risolto il rapporto tra pubblica amministrazione ed economia di mercato, intesa quest’ultima nel duplice senso di sistema generale e di regole e tecniche di gestione delle risorse scarse.

La questione sistemica

La pubblica amministrazione non nasce con il liberalismo, non nasce con la democrazia, e non nasce con l’economia capitalistica di mercato. La pubblica amministrazione nel significato che le viene correntemente dato è coeva alla nascita ed allo sviluppo dello stato moderno ed al duplice fenomeno della fine del particolarismo territoriale e del particolarismo giuridico medievale. Essa nasce quindi come apparato al servizio dei sovrani assoluti. Non è ovviamente casuale che il modello medesimo di pubblica amministrazione corrisponda all’apparato dei sovrani assoluti per eccellenza (quelli di Francia, ovviamente, ma anche quelli di Prussia), mentre l’Inghilterra, che dopo il periodo di Cromwell non ha conosciuto un potere sovrano che non fosse temperato da un parlamento e dai corpi intermedi, non ha mai avuto una pubblica amministrazione con le caratteristiche proprie dell’Europa continentale. Ancora nel pieno del trionfo dello stato liberale un modello di buona pubblica amministrazione sarà rappresentato dall’amministrazione dell’Impero austro-ungarico, il quale non ebbe mai una forma parlamentare compiuta.

L’affermarsi del costituzionalismo e del potere dei parlamenti sottrarranno la pubblica amministrazione all’esclusivo controllo del sovrano. Così, alla pubblica amministrazione saranno assegnate due funzioni fondamentali: assicurare l’esercizio dei poteri regali dello stato e garantire l’esercizio dei diritti individuali garantiti dalle costituzioni. La pubblica amministrazione, ereditata dai regimi assoluti, verrà messa al servizio dei regimi liberali. Ma il rapporto tra liberalismo e pubblica amministrazione resterà sempre dialettico. La pubblica amministrazione, infatti, rappresenterà sempre un potere con una ampia sfera di autonomia, se non di indipendenza. In tal modo essa non avrà soltanto una funzione servente nei confronti tanto dei poteri regali dello stato – esercitati questa volta nell’ambito delle costituzioni – quanto dei diritti individuali. La logica del funzionamento della pubblica amministrazione, e quella della classe burocratica che ne assicura il funzionamento, sarà costantemente quella di espandere i propri poteri a scapito tanto del governo rappresentativo quanto dei cittadini.

Nella visione liberale allo stato venivano attribuiti compiti precisi, chiaramente definiti, e chiaramente delimitati. Allo stato spettava far rispettare le regole della civile convivenza, difendere i cittadini dai nemici interni (ordine pubblico) e dai nemici esterni (esercito), tutelare i diritti di proprietà legittimamente acquisiti (giustizia), amministrare i beni pubblici ed i servizi comuni e fondamentali. Al di fuori delle sue competenze lo stato non doveva avere alcun potere, mentre all’interno delle sue competenze doveva avere poteri forti ed indiscutibili, superiori a quelli di qualsiasi privato singolo cittadino, associazione o impresa.

Lo stato liberale, sociologicamente fondato sui ceti proprietari, e perfettamente funzionale all’estendersi del mercato, si distingueva nettamente da quest’ultimo e dalla sua logica. Il paradosso era (ed è) soltanto apparente perché, per dirla con le parole di un celebre economista contemporaneo, Kenneth Arrow, ‘la definizione dei diritti di proprietà basata sul sistema dei prezzi dipende proprio dalla mancanza di universalità della proprietà privata e del sistema dei prezzi. Il sistema dei prezzi non è universale e forse, in un qualche senso fondamentale, non può esserlo’. Questa mancanza di universalità genera lo spazio dello stato, delle sue funzioni tanto reali quanto simboliche, e quindi della burocrazia.

Il rispetto dei principi dello stato di diritto – che nei Paesi di tradizione romanistica si congiungerà strettamente con il diritto amministrativo inteso come strumento per garantire i diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione medesima – l’eguaglianza di trattamento dei cittadini, la neutralità rispetto agli interessi particolari, la neutralità politica, l’obbedienza, e la capacità di fornire i beni pubblici ed i servizi comuni e fondamentali, diventano i caposaldi dell’agire burocratico. Essi sono i principi dell’etica della pubblica amministrazione. Si tratta di standard formali, che in larga misura prescindono dai concreti obiettivi perseguiti dai titolari del potere politico.

Come è a tutti fin troppo noto, quella visione liberale dello stato è venuta progressivamente ad indebolirsi sin dai primi del Novecento, e resta essenzialmente come categoria ideologica e storiografica. Dalla tutela dei diritti definiti nell’ambito privato si passò allo stato produttore di beni e servizi di tipo “divisibile”, con funzioni eminentemente di redistribuzione del reddito e della ricchezza attraverso la creazione dei diritti sociali. La linea di distinzione tra ciò che appartiene allo stato e ciò che appartiene alla società ed ai corpi organizzati è diventata molto meno netta, ed è anzi spesso inesistente, come avviene in particolare nei paesi a struttura neocorporativa.

Nel passaggio dallo stato liberale allo stato interventista, socialdemocratico o neocorporativo, la pubblica amministrazione ha subito un cambiamento fondamentale. Il modello amministrativo, infatti, muta. Il modello della gestione delle norme viene sostituito dal modello diretto alla produzione diretta o indiretta di beni “divisibili” e di servizi pubblici. Valori come quello della neutralità rispetto agli interessi privati e l’eguaglianza formale di trattamento dei cittadini diventano impossibili da perseguire nel momento in cui le leggi sono sempre meno costituite da comandi universali ed astratti, e sempre più da comandi volti a realizzare particolari stati di cose, quali la redistribuzione del reddito, lo sviluppo economico di determinate aree di un paese, o la nascita di un nuovo settore industriale.

La redistribuzione del reddito è senz’altro l’elemento cruciale, perché essa è al tempo stesso un fine dello stato interventista, ma è anche il mezzo che rende possibili tutti gli altri fini.

La redistribuzione del reddito (e della ricchezza) implica quasi per definizione un’alta spesa pubblica, un’alta tassazione, ed una tassazione altamente progressiva. Dal punto di vista liberale, sia gli attuali livelli di redistribuzione, sia gli stessi meccanismi che la determinano non sono giustificati, né in termini di diritti individuali né in termini di efficienza economica. Ed è del tutto evidente come il contrasto con l’efficienza economica sia l’aspetto più rilevante, dal punto di vista politico.

La tesi degli economisti liberali è che le politiche redistributive influenzano negativamente la produzione della ricchezza in diversi modi. In primo luogo, le coalizioni politiche nate da accordi redistributivi distolgono risorse dai settori più produttivi, spostandole verso usi meno produttivi. In secondo luogo, poiché tutelano interessi costituiti, indeboliscono presso i beneficiari della redistribuzione gli incentivi ad innovare. In terzo luogo, inducono forti pressioni contro l’apertura delle economie nazionali alla concorrenza internazionale, in quanto quest’ultima rende più difficile il godimento di rendite garantite dallo stato. In quarto luogo, le politiche fiscali implicate dalla redistribuzione disincentivano i membri più produttivi della società dall’utilizzare appieno le loro capacità.

è agevole mostrare come vi sia una stretta correlazione tra le dimensioni della pubblica amministrazione ed i livelli di redistribuzione, nel duplice senso che una pubblica amministrazione estesa è necessaria per assicurare una forte redistribuzione del reddito e della ricchezza – sia in maniera diretta, sia in maniera indiretta, attraverso la fornitura gratuita ed universale di beni e servizi – e nel senso che soltanto una forte redistribuzione del reddito permette il mantenimento di un alto livello di spesa pubblica necessario per finanziare una pubblica amministrazione estesa. Tutto questo è sufficiente, sul piano dei principi, perché si possa affermare che vi è un trade-off tra dimensioni della pubblica amministrazione da un lato e crescita economica/ricchezza dall’altro.

Per quanto la tesi possa essere considerata come generalmente vera, essa ha tuttavia un valore relativo quando se ne voglia indurre la conclusione comparatistica che la crescita economica/ricchezza è comunque migliore al diminuire delle dimensioni delle pubbliche amministrazioni.

Una dimostrazione viene dalla considerazione della misurazione della libertà economica nei diversi paesi del mondo. Come è noto, da diversi anni si sono affermate metodologie sistematiche di misurazione della libertà economica. Le due misurazioni sistematiche più note sono quelle prodotte annualmente dalla Heritage Foundation (in collaborazione con il “Wall Street Journal”), e dal Fraser Institute. Entrambe concordano nel fatto di trovare una forte correlazione positiva tra libertà economica e crescita economica, dando in tal modo una conferma empirica di straordinaria importanza alle classiche tesi liberiste.

Dal punto di vista che qui ci interessa, l’elemento importante è che entrambi gli indici comprendono, come elemento di misurazione della libertà economica, dei fattori che riguardano direttamente la pubblica amministrazione.

Tra i parametri considerati, ve ne sono che misurano (classicamente) i limiti  dei poteri dello stato, e quindi anche degli ambiti di intervento della pubblica amministrazione, ma anche quelli che misurano i servizi che essa rende alle attività economiche. Per usare una celebre espressione di James Buchanan, essi riguardano non soltanto uno “stato protettore” dei diritti individuali, ma anche uno “stato produttore” di beni necessari per il funzionamento di una economia di mercato.

è per questa ragione che regolarmente le due classifiche pongono come “economicamente liberi” paesi che hanno un’alta tassazione ed una pubblica amministrazione molto estesa, ma che proteggono in modo efficace i diritti di proprietà ed assicurano servizi efficaci ed a basso costo alle imprese.

In linea generale, si può quindi concludere che non vi è dubbio che una riduzione del peso delle pubbliche amministrazioni rappresenterebbe generalmente un aumento di efficienza delle economie dei paesi capitalistici e, quindi, condurrebbe ad una maggiore crescita. Ma anche assumendo che il peso delle pubbliche amministrazioni non possa – per fattori essenzialmente politici – ridursi significativamente in un futuro prevedibile, il miglioramento delle loro performances può comunque contribuire in maniera importante all’incremento della crescita economica. Riconciliando in tal modo la pubblica amministrazione con la logica dell’economia di mercato.

La questione gestionale e dell’uso ottimale delle risorse

È almeno dall’affermarsi del New Public Management (NPM) – alla fine degli anni Settanta –  che la questione dell’utilizzazione sia della logica del mercato, sia delle tecniche di management privato nell’ambito della pubblica amministrazione, è diventata cruciale in molti Paesi avanzati ed anche in diversi paesi non ancora (pienamente) sviluppati. Eccezione peculiare la Francia, dove l’universalismo del service public e della sua ideologia (fortemente sostenuta dall’opinione pubblica) ha precluso ogni possibilità di applicazione del NPM. Si aggiunge, notoriamente, la peculiarità del diritto amministrativo, il quale sta così fortemente espandendo i suoi ambiti da aver provocato una opposizione formale da parte della giustizia ordinaria, che si sente espropriata delle proprie competenze persino in ambiti come quelli dei diritti civili.

Vi sono pochi dubbi che la visione del NPM abbia avuto una influenza fondamentale in tutte le più importanti riforme amministrative condotte in Italia dalla fine degli anni Ottanta ad oggi. La separazione tra politica ed amministrazione; la “privatizzazione” del pubblico impiego; la contrattualizzazione della dirigenza e l’introduzione della logica degli incentivi; lo spostamento di funzioni fondamentali, come quella fiscale, ad agenzie; l’introduzione di una “quasi-concorrenza” tra servizi pubblici e tra servizi pubblici e fornitori privati (si pensi al caso della sanità in Lombardia);  la creazione di S.p.A. per la gestione di servizi come i trasporti locali o i rifiuti; le norme sulla mobilità del personale:  sono soltanto alcuni dei cambiamenti di chiara derivazione dal NPM.

Sebbene la storia, anche quella della pubblica amministrazione, non contempli i controfattuali (e quindi nessuno potrebbe dire quale sarebbe oggi lo stato della pubblica amministrazione se queste riforme non fossero state adottate), tuttavia è difficilmente negabile che questa non soltanto non ha avuto miglioramenti adeguati per la qualità della vita dei cittadini, ma anche che il divario con l’evoluzione dell’economia si è andato allargando. Un divario che diventa sempre più insostenibile nel momento in cui la mano pubblica assorbe quasi la metà della ricchezza prodotta, e regolamenta in maniera sempre più stringente il sistema della vita economica. La pressione competitiva posta dalla globalizzazione dell’economia amplifica questi aspetti, determinando le situazioni di sofferenza purtroppo ben note. La questione della carenza infrastrutturale, della quale il ritardo sulle reti telematiche è quella di maggiore attualità ma non necessariamente la più importante, ne è l’esempio più chiaro.

Qui sembra evidente che ci troviamo di fronte non ad una questione di fini, ma di mezzi. Infatti soltanto una parte minoritaria delle forze politiche sostiene un ritorno ad una pubblica amministrazione guidata da logiche separate da quelle dell’efficienza allocativa e gestionale del mercato. Il problema è piuttosto quello dei mezzi con i quali conseguire l’obiettivo.

Da questo punto di vista si pongono due possibili soluzioni.

La prima è quella di una logica incrementale. Ovvero di perseguire la modernizzazione della pubblica amministrazione at large attraverso una continua azione di riforme, mantenendo intatto il suo perimetro giuridico e funzionale.

La seconda considera che ogni reale miglioramento di efficacia e di efficienza richiede una ridefinizione completa del perimetro della pubblica amministrazione. Tale ridefinizione va attuata ripensando le origini stesse della pubblica amministrazione, ovvero il suo costituirsi ed il suo espandersi come strumento per fornire beni pubblici “puri” e beni collettivi. Sostanzialmente, si dovrebbe intraprendere una actio finium regundorum che definisca quali sono, nella realtà odierna, i beni pubblici “puri” che dovrebbero essere forniti dalla mano pubblica secondo la logica del potere esclusivo ed irresistibile (con tutti i suoi corollari giuridico-organizzativi) ed i beni collettivi, che potrebbero ben continuare ad essere forniti dalla mano pubblica, ma con due cambiamenti fondamentali. In primo luogo, attraverso istituzioni rette esclusivamente dal diritto privato, ed in secondo luogo escludendo non soltanto qualsiasi monopolio da parte della mano pubblica ma anche ogni sua posizione di privilegio, giuridico o reale, rispetto ai fornitori che operino in un mercato competitivo (quest’ultimo è uno dei punti fondamentali della visione della mano pubblica sostenuta dal grande pensatore liberale Friedrich von Hayek).

Dal punto di vista astratto, si tratterebbe di separare due aspetti. Da un lato, le istituzioni e le norme che garantiscono la finalità, indiscutibile, di permettere a tutti i cittadini (specialmente ai meno abbienti) la fruizione su base universalistica di servizi come l’istruzione,  la sanità e la previdenza. Dall’altro,  le istituzioni e le norme che dovrebbero garantire il miglior uso delle risorse per le finalità stabilite dalle decisioni politiche, con la piena utilizzazione dell’efficienza sia della logica di mercato sia delle tecniche di management del settore privato.

Come corollario, andrebbero abolite, o sostanzialmente ridimensionate, tutte le forme intermedie di istituzioni che sono proliferate sin dall’epoca del fascismo, e che quasi trent’anni di privatizzazioni e deregolamentazioni non hanno affatto eliminato. Con l’ulteriore corollario che andrebbero ridefiniti i confini sia dei controlli di legittimità, sia dei controlli contabili.

È evidente come questa seconda soluzione prospetti uno scenario particolarmente audace. Esso potrebbe sembrare irrealistico, tanto dal punto di vista giuridico quanto dal punto di vista del consenso politico. Vi sono senz’altro ottime ragioni per sostenere questa tesi. Mancano, però, buone ragioni per ritenere che non valga la pena di considerare questo scenario come non meritevole di considerazione, almeno intellettuale.

E che meritevole lo sia lo si può argomentare guardando proprio al paese dove la pubblica amministrazione è più forte, e dove il suo perimetro è più esteso. La necessità di una actio finium regundorum si sta ponendo infatti fortemente nella dottrina e, ancor più, nella politica francese. Proprio il paese che ha escluso radicalmente, come abbiamo prima ricordato, ogni ipotesi di inserire sistematicamente il NPM nella propria struttura amministrativa.

Varrà decisamente la pena di seguire l’evoluzione del dibattito francese, per l’ovvia ragione che, nonostante i tentativi di federalizzazione dello stato italiano, la struttura portante della nostra pubblica amministrazione è ancora largamente debitrice al modello transalpino. Poco o nulla ha assunto da quello di paesi come la Germania o il Regno Unito. Vi sarà molto da imparare, comunque vadano le idee e comunque vada la realtà dell’amministrazione francese.

 

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