Da dirigente a leader: la via del cambiamento.

di Luigi Nicolais - Professore Emerito Università degli studi di Napoli Federico II
e Giuseppe Festinese - Dirigente Università degli studi di Napoli Federico II

Circa trent’anni fa nel nostro Paese iniziò un ampio dibattito sul public management. Una sfida impegnativa finalizzata a cambiare ruolo, funzioni, comportamenti e valori nella gestione della Pubblica Amministrazione. L’intento, lodevole e ambizioso, era modernizzarla, separare l’indirizzo politico dalla azione amministrativa, ridurre i costi e il peso della burocrazia, semplificare, velocizzare [...]

di Luigi Nicolais – Professore Emerito Università degli studi di Napoli Federico II

e Giuseppe Festinese – Dirigente Università degli studi di Napoli Federico II

 

C irca trent’anni fa nel nostro Paese iniziò un ampio dibattito sul public management. Una sfida impegnativa finalizzata a cambiare ruolo, funzioni, comportamenti e valori nella gestione della Pubblica Amministrazione (PA).

L’intento, lodevole e ambizioso, era modernizzarla, separare l’indirizzo politico dalla azione amministrativa, ridurre i costi e il peso della burocrazia, semplificare, velocizzare.

A distanza di tempo, dopo alcuni importanti tentativi di riforma e di autoriforma della PA è evidente che molti tra quegli obiettivi restano ancora non raggiunti, come se fosse venuto meno l’allineamento fra la capacità di risposta della PA e le esigenze dei cittadini, delle imprese e delle stesse istituzioni.

In altri termini, i diversi tentativi di introdurre management nella burocrazia hanno generato una burocrazia del management.

Questa involuzione trova conferma nella numerosità degli adempimenti cui ciascun dirigente deve assolvere. Adempimenti che rappresentano vincoli di processo in ogni sfera d’azione e imbrigliano l’esercizio dello stesso management.

La proliferazione di queste attività è collegata a norme immaginate prevalentemente per prevenire e contrastare i fenomeni degenerativi della PA: dalla mancata trasparenza all’aumento di forme di corruzione e mala-amministrazione.

In tal modo  la scelta di concentrarsi su una visione negativa della PA ha portato ad adottare norme che prevedono più l’attribuzione di sanzioni che la possibilità di riconoscere o di valorizzare il positivo esistente. Del resto, non è secondario che molte delle decisioni sulla PA vengano preannunciate da campagne negative e delegittimanti la figura del pubblico dipendente: da furbetti del cartellino a fannulloni, da corrotti a potenti mandarini.

È evidente che tali fenomeni interessino solo una percentuale significativa, ma non certo maggioritaria, della PA tuttavia offrono motivi tali da intervenire sull’azione amministrativa con norme che riducono drasticamente ogni spazio di autonomia e di discrezionalità, condizioni essenziali per esprimere il senso e la responsabilità del dirigere, dell’assumere decisioni, dello scegliere.

Tali indirizzi trovano, poi, pronta presa e consenso sociale perché puntano a individuare soggetti da colpevolizzare, senza però incidere realmente sui processi, innovandoli, e sui comportamenti migliorandoli. Al contrario favoriscono il consolidamento di forme di immobilismo e di autoreferenzialità.

Da sempre l’arroccamento, oltre a rappresentare la resistenza fisiologica al cambiamento, è una strategia difensiva e conservativa, dove il dover rispettare la legge, sine glossa, sostituisce il “fare”.

In tal modo la legge cessa di essere il prerequisito dell’azione amministrativa, la bussola dell’agire civico, l’orizzonte dell’interesse generale e diventa, estremizzando, una sorta di obiettivo di performance. In tal modo anche la responsabilità dirigenziale cambia pelle e assume diverso valore in quanto passa da responsabilità per violazione di obblighi a una responsabilità per obblighi di processo.

Questo cambio di prospettiva non fa bene alla PA né ai suoi dirigenti che non hanno opportunità di proporsi e operare come leader autorevoli di comunità, ma al più come attenti controllori di procedure distanti e spesso avvertite come inutili rispetto al fare quotidiano.

Occorre cambiare consapevoli che la risposta non può, né deve essere solo normativa. Sarebbe riduttivo.

In più occasioni è stato fatto notare che ridisegnare la dirigenza pubblica è un compito delicato, importante e fondativo al pari delle modifiche costituzionali. Attraverso la dirigenza pubblica, la sua selezione, formazione e valutazione, un paese indica la propria idea di stato e di società.

Per cambiare e innovare radicalmente la pubblica amministrazione bisogna, quindi, saper andare oltre la lettura secondo adempimento della legge, imparare a ricostruire criticamente il quadro normativo nella sua interezza e interdipendenza.

Occorre saper individuare e adottare risposte sempre più sintesi di ragionamenti, confronti, interpretazione e verifica. Per farlo va recuperato il saper fare e il saper far fare investendo nella formazione autentica – non cumulativa di titoli – dei quadri e dei dirigenti, perché solo acquisendo competenze reali e adeguate ai mutamenti in corso sarà possibile governarli, orientarli.

È urgente, poi, un cambio culturale sui temi della valutazione e del rischio.

Siamo ancora distanti dal pragmatismo anglo-americano per il quale successi e insuccessi sono vissuti e valutati come esperienze di crescita professionale non come giudizi definitivi sul valore delle persone. Sbagliare nella nostra cultura si sovrappone a essere colpevole, la stessa possibilità di errore è talmente certa e scontata che anche le norme, nate per incentivare le prestazioni, hanno previsto a priori delle percentuali decontestualizzate cui attribuire premialità.

Promuovere, invece, la continuità della formazione, saperla coniugare al learning by doing; fare propria una cultura positiva del rischio; incentivare la crescita individuale anche attraverso cambi di sede, di amministrazione, maturare esperienze internazionali sono punti di snodo per rinnovare la dirigenza pubblica.

In assenza, ovvero senza la capacità di saper decidere con competenza, autonomamente, liberi dalla paura della colpevolizzazione, ma forti della propria responsabilità non si ha dirigenza. Tantomeno avrebbe senso averne. Per rispettare gli adempimenti prescritti dalla norma, sempre più articolati, puntuali e invasivi, bastano quadri esecutivi, costano meno.

La sfida, invece, è saper coniugare leadership, responsabilità ed etica pubblica, ovvero competenze, visione e saper far fare, caratteristiche qualificanti la dirigenza cui restituire reputazione pubblica.

«Metterci la faccia» deve diventare fattore distintivo per ogni dirigente: esporsi alla valutazione dell’utenza e dei risultati senza nascondersi dietro l’alibi della norma o del rifiuto.

Anche perché assumere incarichi dirigenziali non è un obbligo.

Fare il dirigente significa saper guidare, farsi carico di decisioni, interpretare e rappresentare i valori delle istituzioni, ma soprattutto significa conseguire risultati di cui rendere conto in concreto e in prima persona alla collettività.

Per diventare dirigenti, al di là di competenze tecniche e professionali specifiche, occorre ascoltare, relazionarsi, confrontarsi, mettersi in gioco. Essere pronti ad assumere rischi e decisioni anche quando impopolari, purché agganciate a interessi superiori e generali.

Per essere buoni dirigenti, manager della cosa pubblica, occorre anche essere coraggiosi, aperti al cambiamento: la stanzialità dirigenziale giustificata dal dover assicurare la continuità amministrativa può favorire, se mal interpretata, l’ossificazione dei processi, l’immobilismo culturale, la stratificazione dei comportamenti, la resistenza a ogni proposta di innovazione.

Di contro la mobilità fra amministrazioni prossime per missione, vocazione e interessi, come ad esempio le università e gli enti di ricerca o fra enti territoriali di diverse dimensioni, può diventare uno strumento per mutuare buone pratiche, introdurre procedure più efficaci, favorire la semplificazione, ridurre i costi. Diversamente: cambiare, crescere.

In questo contesto va accolta con attenzione la nascita della Rivista Italiana di Public Management che oltre ad arricchire la proposta editoriale di settore, offre uno spazio di confronto critico, teorico e pratico per quanti interessati e impegnati nell’ammodernamento della pubblica amministrazione e della sua dirigenza.

 

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