L’ emersione del New Public Management (NPM) nel mondo anglosassone nell’ultimo ventennio dello scorso secolo ha avuto un profondo impatto anche sulla scienza del diritto amministrativo. Ovunque, essa ha cominciato a interrogarsi se la materia non fosse destinata a fare la fine dei dinosauri sotto le meteoriti della fredda razionalità economica. Nello stesso mondo anglosassone questa comprensibile preoccupazione è stata ben presto accantonata. A tal fine è stato sufficiente indicare la fitta trama regolatoria tessuta dall’ordinamento per comprendere come il NPM rappresentasse in realtà un fattore di arricchimento e di rinnovamento del diritto amministrativo, non certo una causa di estinzione.
In altri contesti, il rapporto è stato più tormentato. Francia e Germania hanno sempre guardato con sospetto alle presunte virtù del New Public Management. E ci si è interrogati con una cospicua dose di scetticismo se davvero il diritto amministrativo costituisca un ostacolo al buon andamento della pubblica amministrazione.
Il vero capolavoro lo si è registrato però in Italia. Qui operatori e studiosi hanno guardato con entusiasmo al NPM e alle sue ricette. Anche una parte significativa della scienza giuridica, tradizionalmente meno sciovinista di quella francese e tedesca e più aperta alla comparazione e all’analisi interdisciplinare, ha rivolto crescente attenzione agli esperimenti avviati oltremanica. Arrivati al momento della decisione politico-legislativa, tuttavia, l’armamentario teorico e pratico del NPM è stato declinato con gli strumenti giuridico-formali propri della nostra tradizione amministrativa. Gli obiettivi di efficacia, efficienza ed economicità sono stati declamati in apertura di quasi ogni legge sull’organizzazione e sull’azione amministrativa. E il loro perseguimento è stato affidato a istituti e procedimenti minuziosamente disciplinati, basti pensare al ciclo di programmazione e misurazione della performance. L’esito grottesco è stata la burocratizzazione della sburocratizzazione.
Oggi il NPM appare scosso nelle sue stesse fondamenta. Da un lato, la crisi economico-finanziaria dell’ultimo decennio ne ha ovunque messo in questione i suoi presupposti teorici, al punto da preconizzare, secondo alcuni, il suo inevitabile tramonto. Dall’altro, gli effetti paradossali se non addirittura beffardi generati in concreto in alcuni ordinamenti, a cominciare da quello italiano (basti pensare ai premi di risultato distribuiti a pioggia), hanno fatto sorgere un più che comprensibile disincanto.
Eppure il prezioso lascito del NPM è ancora presente, per una ragione incontrovertibile: e cioè che, in un contesto di risorse pubbliche scarse, non si può fare a meno dell’aspirazione a fare meglio (o almeno lo stesso) con (sempre) meno. Focalizzare obiettivi e priorità, mettere in competizione i fornitori, misurare i risultati, premiare il merito rimangono strumenti fondamentali della buona organizzazione e azione amministrativa. È stata invece giustamente respinta l’idea che basti trapiantare nel settore pubblico le ricette impiegate nel settore privato per risolvere d’incanto ogni problema. Queste potranno costituire tutt’al più una fonte di ispirazione o un parametro di raffronto. Ma restano imprescindibili l’etica del servizio, il senso della missione pubblica.
Gli insegnamenti del New Public Management, infine, dovrebbero costituire un prezioso antidoto a tutte le forme di crescente compressione di ogni margine di autonomia e discrezionalità nell’esercizio dell’azione amministrativa. Questa, infatti, appare sempre più stretta nella tenaglia costituita, da un lato, dall’invasione della scelta politico-legislativa e, dall’altro, dalla minaccia della responsabilità e dei controlli. L’amministrazione per legge e il governo delle procure (penali, contabili, o amministrative, come l’Autorità nazionale anticorruzione), però, negano in radice la possibilità di una buona gestione pubblica, che invece avrebbe bisogno di competenza tecnica, flessibilità operativa, riconoscimento sociale.